9.3.11

dedicato a Roger

Dedicato a Roger, perchè possa vivere in salute 100 anni e più.




Caro Roger, oggi ho riletto la bellezza di 33 pagine del libro “Anti-cancro” del dott. David Servan-Schreiber ( il medico francese che a 31 anni ha scoperto di avere un tumore al cervello, lo ha curato, ha avuto una ricaduta e poi lo ha curato in modo definitivo ). Il suo libro è composto da 280 pagine, ma queste 33 sono già un libro a sè e c'è scritto tutto quello che serve a te ( o meglio: a noi ). Per questo ho reputato importante trascrivere queste 33 pagine, fare le dovute postille e dedicartelo. Non so se mandartele tutte insieme ( quindi è sicuro che NON le leggeresti subito ), o un po' alla volta.

Secondo me sarebbe meglio che io te le mandassi subito, poi sarai tu a leggerne una pagina ogni sera, prima di andare a dormire, in modo tale da organizzarti per il giorno dopo una sana giornata anti-cancro.



Parto da pag. 112. Capitolo 7. La ricaduta.



Erano passati alcuni anni dalla mia prima operazione ( asportazione di un tumore al cervello grande come una noce n.d.A. ) e mi illudevo che fosse tornato tutto a posto ( mai illudersi che tutto sempre fili liscio!!! n.d.A. ). Un pomeriggio stavo bevendo un tè con una mia amica, una delle pochissime persone che sapessero della mia malatti, e mentre parlavamo del futuro lei mi disse, un po' titubante:”David, devo chiederti una cosa. Cosa fai per il tuo 'terreno'? (per 'terreno' si intende il proprio corpo, soprattutto il suo potenziamento attraverso un sistema immunitario perfetto n.d.A. )

sapeva benissimo che non condividevo affatto il suo entusiasmo per le medicine naturali e l'omeopatia. Per me, il concetto stesso di 'terreno', di cui non avevo mai sentito parlare mei miei studi accademici, esulava dall'ambito della scienza medica e quindi non mi interessava minimamente. ( quanti altri medici la pensano come lui? Penso oltre il 99% n.d. A. ). Le risposi che mi stavo curando benissimo e che non c'era altro da fare se non sperare che il tumore non si riformasse ( povero illuso!!! n.d. A. ).

E cambiai argomento.

Ricordo bene cosa mangiavo a quell'epoca. Lavorando in ospedale, per risparmiare tempo avevo imparato a buttare giù qualche cosa al volo durante una conferenza o addirittura in ascensore!

(ne conosciamo di tipi del genere, eh, Roger?). Andavo avanti a furia di chili con carne, bagel e Coca Cola. Abbinamento che, con il senno di poi, considero letteralmente esplosivo!!! un concentrato di farine bianche, zuccheri e grassi animali pieni di omega 6, ormoni e tossine.

Come quasi tutti coloro che sono usciti dal primo, terrificante incontro con un cancro, anch'io preferivo comportarmi come se avessi avuto una polmonite o mi fossi rotto una gaba, raccontandomi che avevo fatto il necessario e che tutto ormai era passato. Preso dal lavoro e dalla nascita di mio figlio, avevo nettamente diminuito l'attività fisica e avevo lasciato perdere anche l'effimero interesse per la meditazione che mi aveva suscitato la lettura di Jung ( attività fisica e meditazione giornaliera sono i pilastri per un buon funzionamento del sistema immunitario: almeno 30 minuti al giorno per la prima e 20 per la seconda. n.d. A.). Non ero stato mai neppure sfiorato dall'idea che, se mi era venuto un cancro, probabilmente qualcosa nel mio 'terreno' gli aveva permesso di svilupparsi, e che quindi fosse il caso di adottare qualche provvedimento per limitare i rischi di una ricaduta.

Qualche mese dopo quella conversazione con la mia amica, accompagnai una paziente nativo-americana a una cerimonia alla quale partecipavano famigliari e amici di lei, e durante la quale un uomo-medicina avrebbe invocato gli spiriti per aiutarla a superare la sua malattia. Fui subito colpito dallo sciamano, un uomo di grande umanità, sincero e sensibile. Sapeva trovare delle parole molto semplici per descrivere ogni partecipante e far sentire alla mia paziente che ognuno di loro dava il suo contributo alla sua voglia di vivere, e pertanto alla sua salute. Non avevo dubbi circa il fatto che la sua pura presenza esercitasse uno straordinario effetto terapeutico.

Incuriosito dai misteriosi poteri attribuiti a quell'uomo, dopo la cerimonia gli chiesi di toccarmi il cranio e dirmi se percepisse qualcosa. Mi pose delicatamente la mano sulla testa, chiuse gli occhi per qualche secondo, poi dichiarò:”Forse c'è stato qualcosa, qui, ma ora è andato via. Non c'è più nulla”.

Non ne rimasi impressionato più di tanto, sapevo già che non c'era niente perchè avevo appena fatto i controlli annuali ed erano risultati negativi. Lui però dovette intuire questa sicurezza nel mio atteggiamento, perchè con un pizzico di malizia negli occhi aggiunse:”Sa, tutti vogliono farsi visitare da me, ma il vero uomo-medicina è mia madre!”.

Così, il giorno dopo andammo insieme da sua madre, una donnina di novant'anni, fragile e minuta, che mi arrivava a malapena al mento. Viveva sola in una roulotte e si spostava con una sveltezza

sorprendente per la sua età. Aveva il viso solcato da profonde rughe ed era quasi senza denti, però quando sorrideva – e lo faceva spesso – quei suoi occhi penetranti parevano illuminarsi di giovinezza. Mi posò a sua volta la mano sulla testa, concentrandosi per qualche istante, e poi mi disse con dolcezza:”C'è un problema. Lei ha avuto qualcosa di grave che ora sta tornando, ma non si preoccupi, ne uscirà benissimo”. Poi aggiunse che era stanca, la visita era finita.

Non diedi molto credito a quelle parole, preferivo fidarmi dei risultati della TAC che risalivano ad appena tre mesi prima. Eppure quella predizione dovette toccare un nervo scoperto, perchè prima di sottopormi agli esami successivi lasciai passare meno tempo del solito. E a quel punto scoprii che l'anziana sciamana aveva ragione: il cancro si era formato di nuovo, esattamente nello stesso punto.

Ora, rendersi conto di avere un tumore è uno shok perchè ci si sente traditi dalla vita, dal proprio stesso organismo, ma scoprire di avere una ricaduta è semplcemente tremendo. È come capire, di colpo, che il mostro che si credeva sconfitto non è mai morto, anzi, è rimaso in agguato nell'ombra, e adesso sta rialzando la testa. Finirà mai quest'incubo?

La botta di quell'annuncio mi fece rivivere in un lampo tutte le sofferenze e le paure patite la prima volta e mi dissi che nonavrei più potuto sopportare di nuovo un simile calvario. Quel giorno annullai tutti gli appuntamenti del pomeriggio e andai a fare una camminata. Da solo. La testa mi scoppiava e mi sentivo frastornato e sconvolto. Avrei voluto parlare con Dio, ma non ero credente. Infine riuscii a concentrarmi sulla respirazione e a calmare la tempesta di pensieri per guardarmi dentro, in un atteggiamento molto simile a una preghiera:”O mio corpo, mio essere, mia forza vitale, perdonami! Fammi sentire cosa ti sta capitando, fammi capire perchè ti sei lasciato sopraffare così...Dimmi di cosa hai bisogno, cosa ti nutre, ti rafforza e ti protegge di più. Dimmi come potremo percorrere questo cammino insieme, perchè io, da solo, con la mia testa, non ci sono riuscito e non so più cosa fare...”

Dopo un po' mi armai di coraggio e mi preparai a rifare il giro degli specialisti per raccogliere i loro vari pareri.

Come spesso avviene davanti a un cancro, il chirurgo che consultai mi disse che bisognava operare, il radiologo che occorreva una radioterapia, l'oncologo che si poteva tentare con la chemio. Si potevano anche abbinare fra loro questi trattamenti, che però presentavano tutti gravi svantaggi. La chirurgia avrebbe comportato l'asportazione non soltanto del tumore, ma anche di tessuti cerebrali sani per lasciare il minor numero possibile di cellule cancerose, ben sapendo che nella forma di tumore che mi aveva colpito ne restano sempre.

Con la radioterapia al cervello, invece, esisteva il rischio ( remoto ma non trascurabile ) di sviluppare una forma di demenza nell'arco di dieci-quindici anni. Ora, se le probabilità di guarigione son scarse, si può ricorrere a questa tecnica per guadagnare qualche anno, ma io ero deciso a puntare su una sopravvivenza il più possibile lunga. Uno dei neuroscenziati più brillant con i quali avessi lavorato aveva sviluppato una forma di demenza dopo aver subito una radioterapia per un tumore cerebrale che non era neppure maligno, e io non volevo fare la sua stessa fine.

Quanto alla chemioterapia, per definizione si tratta di un veleno, un veleno che uccide in primis le cellule che si moltiplicano più rapidamente, ossia quelle tumorali, ma anche quelle dell'intestino, del sistemma immunitario, dei capelli. E rischiava di provocare la sterilità. L'idea di vivere per mesi e mesi con quel veleno in corpo non mi allettava affatto, e per giunta senza garanzia di successo, visto che i tumori al cervello presentano la fastidiosa tendenza a diventare rapidamente resistenti alla chemio.

Alla fine ho deciso di affiancare all'operazione chirurgica un anno di chemioterapia per eliminare il massimo possibile di cellule tumorali, e in quello stesso periodo mi sono tuffato nella letteratura scientifica per tentare di battere le statistiche che mi riguardavano. E questa volta avevo imparato la lezione: mi sarei dovuto occupare seriamente del mio 'terreno'. ( e tu, Roger, quando deciderai di occuparti SERIAMENTE del tuo terreno?)



Pagina 118. gli alimenti anti-cancro. La nuova medicina della nutrizione.



Il principio tibetano.



La mia visione della medicina ha iniziato a scricchiolare nelle vie di Dharamsala, in India, dove ha sede il governo tibetano in esilio. Nel corso di una missione umanitaria presso gli orfani tibetani, mi sono reso conto che in quella città esistevano due sistemi sanitari paralleli. Il primo faceva perno sul Dalac Hospital, un moderno istituto occidentale, con i reparti di chirurgia e radiologia e i medicinali a cui siamo abituati noi. Attorno a quell'ospedale, medici formati sì in India, ma all'occidentale, oppure in Gran Bretagna o negli Usa, praticavano nei loro studi privati la stessa medicina che era stata insegnata a me. Nelle nostre conversazioni parlavamo degli stessi testi di riferimento e ci capivamo al volo.

Sempre lì esistevano, però, anche una facoltà universitaria in cui veniva insegnata la medicina tibetana tradizionale, una manifattura che produceva rimedi ottenuti dalle piante e una schiera di medici tibetani che curavano i pazienti con metodi completamente diversi da quelli che avevo studiato io. Esaminavano il corpo come se fosse un giardino: non cercavano i sintomi della malattia, spesso evidenti, quanto piuttosto i difetti del terreno, ciò che gli mancava per difendersi dalla malattia. L'obiettivo era capire come fortificare l'organismo, ossia la terra di quel giardino, per spingerlo a combattere con le proprie risorse il disturbo che aveva portato il paziente dal medico.

Non avevo mai guardato alla malattia in quell'ottica e un simile approccio mi lasciava parecchio perplesso, anche perchè i colleghi tibetani suggerivano rimedi che ai miei occhi apparivano del tutto esoterici e probabilmente inefficaci. Parlavano di agopuntura, di meditazione, di infusi e, soprattutto, di correggere l'alimentazione. Nel mio sistema di riferimento nulla di tutto ciò poteva essere veramente efficace, se non forse per dare un minimo di speranza al paziente, tenendolo occupato e lasciandogli credere che gli servisse a qualcosa...

Mi domandai allora che cosa avrei fatto se fossi stato tibetano e se mi fossi ammalato. Potendo scegliere fra quei due diversi approcci sanitari, quale avrei preferito? Rivolsi questa domanda a tutte le persone con cui lavoravo o che avevo occasione di incontrare. La posi al ministro della Sanità, che mi aveva invitato in missione in India, al fratello del Dalai Lama, che mi ospitava in casa sua, ai grandi lama medici ai quali venivo presentato, ma anche alla gente comune in cui mi imbattevo nei miei spostamenti a piedi attraverso la città. Ero convinto di mettere quelle persone davanti ad un dilemma: avrebbero scelto la medicina occidentale, moderna ed efficace, o quella ancestrale – che lo era necessariamente di meno – per rispetto della tradizione?

Puntualmente, tutti mi guardavano come se avessi posto una domanda assolutamente stupida. “Ma è ovvio” era la risposta unanime, “se si tratta di una malattia acuta, come una polmonite, un'infaro, un'appendicite, bisogna rivolgersi alla medicina occidentale, che ha terapie rapide ed efficaci per le crisi. Ma se si tratta di una malattia cronica è meglio rivolgersi a un medico tibetano, che usa terapie più lente, sì, ma che curano il terreno in profondità, il che a lungo termine è l'unica cosa che funziona davvero.

E il cancro? Si calcola che occorrano tra i 4 ed i 40 anni perchè una prima cellula mutante possa trasformarsi in un tumore maligno. Va dunque ritenuta una malatti acuta o cronica? E cosa facciamo noi in Occidente, per “curare il terreno”? ( e cosa fai tu, Roger, per curare il tuo terreno? n.d. A. )



da pag 122. Avere un cancro senza essere malati.



Un giovedì sera Richard Beliveau, biochimico e ricercatore che dirige uno dei più grandi laboratori di medicina molecolare al mondo ed è specializzato nella biologia del cancro, ricevette una drammatica telefonata dalla moglie di un suo amico che soffriva di un grave tumore al pancreas ( come è successo al tenore Luciano Pavarotti e all'attore americano Patrick Scwazy ). Lenny abitava a New York, e al Memorial Sloan-Kettering Cancer Center – uno dei migliori centri oncologici statunitensi – gli erano stati pronosticati pochi mesi di vita. Il tumore al pancreas è, effettivamente, uno dei più inesorabili che si conoscano. Quanto a Lenny, pareva uscito dalle pagine di un romanzo: imponente, dalla risata fragorosa e dagli accessi di collela leggendari, amava da sempre il poker ed il casinò. Gli erano capitate delle pessime carte ma, ancora una volta, era deciso a tentare la sorte sino all'ultima mano. Beliveau aveva una terapia, un metodo da suggerirgli? Era pronto ad andare in capo al mondo per sottoporsi a qualsiasi protocollo sperimentale.

All'altro capo del filo, Beliveau capiva che la moglie di Lenny faceva fatica a parlare per il magone che le chiudeva la gola. “Sono trentadue anni che viviamo insieme, non ci siamo mai separati. Non possiamo credere che finisca tutto così, in questo modo, così brutalmente. Ci serve solo un po' più di tempo...solo un po' di tempo...”

lui si fece mandare la cartella clinica via fax e, il mattino dopo, si mise subito a spulciare le banche dati internazionali in cerca dei più recenti protocolli di ricerca. Sul tumore al pancreas, però, erano poco numerosi e nelle rare sperimentazioni in corso non accettavano pazienti a uno stadio così avanzato. Con il cuore gonfio, ritelefonò alla moglie di Lenny per annunciarle la brutta notizia. Lei scoppiò a piangere, poi gli disse: “So che tu studi gli effetti dell'alimentazione sul cancro. Mi occuperò io di Lenny dalla A alla Z sino all'ultimo istante, farà tutto quello che gli dirò. Se hai dei suggerimenti, noi li seguiremo tutti dal primo all'ultimo. Non abbiamo nulla da perdere”.

Era vero: non avevano nulla da perdere. Se le sue idee erano giuste, era dunque il momento di metterle al servizio di qualcuno che ne aveva veramente bisogno.

Per tutto il week-end, Beliveau si immerse nella banca dati MedLine, una raccolta informatizzata ti tutti gli articoli medici pubblicati al mondo, tenuta aggiornata dalla National Library of Medicine di Washington. Raccolse articoli di ogni genere su alimenti che avessero mostrato di possedere qualche effetto anticancro, poi si mise a calcolare le concentrazioni di composti fitochimici che è possibile ottenere con normali dosi da cucina, valutandone la biodisponibilità e l'assimilazione intestinale.

In quei due giorni di intenso lavoro riuscì a stilare la prima lista di alimenti contro il cancro, che avrebbe poi formato il nucleo di un libro destinato a un successo strepitoso in parecchie lingue. Comprendeva, fra gli altri, le diverse varietà del cavolo, i broccoli, l'aglio, la soia, il te verde, la curcuma, i lamponi, i mirtilli e il cioccolato fondente.

La domenica sera ritelefonò alla moglie di Lenny per dettarle la lista, accompagnandola con un'avvertenza fondamentale: “Il cancro è come il diabete: bisogna occuparsene ogni giorno. I medici vi hanno detto che a Lenny restano ancora alcuni mesi di tempo: è necessario fargli mangiare questi alimenti tutti i giorni, tre volte al giorno, senza mai sgarrare. Un consumo occasionale non serve a nulla”. Beliveau indicò inoltre gli alimenti da mettere al bando: in pratica tutti i grassi, tranne l'olio di oliva e quello di lino, per evitare gli omega 6 che attivano lo stato infiammatorio. Le diede inoltre alcune ricette giapponesi che conosceva bene e che gli piacevano particolarmente. La donna prendeva scrupolosamente appunti:”Gli preparerò questi piatti ogni giorno”, promise. Era l'unica cosa alla quale poteva ancora aggrapparsi.

I primi giorni, lei gli telefonava spesso: seguiva attenta le indicazioni di Beliveau, ma aveva paura, e scoppiava invariabilmente a piangere:”Non voglio perderlo...non voglio perderlo...”. Nel giro di qualche settimana, però, il tono cambiò:”E' la prima volta che si alza da 4 mesi”, oppur “Oggi ha mangiato di gusto”. Giorno dopo giorno, i miglioramenti diventavano più vistosi:”Va meglio, oggi cammina”, e addiritura:”E' uscito di casa..”.

Beliveau non credeva alle proprie orecchie. Si trattava pur sempre di un tumore al pancreas, il più terribile, il più aggressivo, il più fulminante. Eppure non c'erano dubbi: nell'organismo stremato di Lenny qualcosa stava reagendo.

Lenny sopravvisse quattro anni e mezzo. Il tumore si era stabilizzato a lungo ed era addirittura regredito di un quarto, permettendogli di riprendere le sue consuete attività, i suoi viaggi. Il suo oncologo di New York, diceva di non aver mai visto nulla di simile. Per un certo tempo, tutto andò come se Lenny avesse un cancro senza esserne ammalato, anche se il suo organismo finì poi per soccombere.

Beliveau, raccontando questa vicenda, quasi arrossisce. “Era la prima volta che facevo raccomandazioni del genere. Naturalmente si trattava di un caso unico, non se ne poteva concludere nulla, eppure...che fosse una strada praticabile?” per un ricercatore che aveva dedicato tutta la vita allo studio della biologia in chemioterapia, si trattava di una bella sorpresa. Ma, dopotutto, che cosa ci impedisce di mangiare meglio durante una chemioterapia, o dopo? Non ci sono certo controindicazioni.

Nei giorni a seguire, Beliveau continuò a svegliarsi in piena notte, assillato dal dubbio su cosa fare. “Ho il diritto di passare sotto silenzio una scoperta così importante per la salute pubblica? È moralmente accettabile che non esplori sistematicamente, scientificamente, questo approccio dietetico?”.

Alla fine decise di lanciare il suo laboratorio nel più importante programma di ricerca mai intrapreso sugli effetti biochimici degli alimenti anticancro, e da allora i risultati sono stati tali da stravolgere in modo completo le idee sul miglior modo per proteggersi dal cancro.  

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